Di Marco Rossi Doria – 20 gennaio 2020

Intorno alla vicenda del “cippo” o “fuocarazzo” di Sant’Antonio, vi è stato un brutto episodio di giovanissimi, poco più che bambini, che hanno lanciato, proprio nella zona del Borgo di Sant’Antonio, petardi e immondizie contro i pochi poliziotti andati lì, come altrove in città, a fare da presidio. È una cosa che preoccupa. Che, però, non va confusa con le scorribande omicide delle baby gang perché è sempre più importante saper distinguere i diversi fenomeni.

Certamente, questo dei fuochi è un rito che ha perso la sua forza con l’andare degli anni, divenendo occasione di schiamazzo giovanile, quasi da curva di stadio. Invece, aveva rappresentato per centinaia di anni e fino a poco fa – nell’area vasta che va da Castellamare a Pozzuoli al Casertano – l’archetipo del fuoco che si risveglia, come nel vulcano che ci sovrasta, con i bambini e i ragazzi cui era dato il compito di raccogliere e dare fuoco alla legna nelle piazze e negli spiazzi più larghi, con le famiglie, intorno alle braci, che cucinavano insieme, nelle comunità di rione, che ora quasi non esistono più.

Mi occupo dei fuochi di Sant’Antonio Abbate da oltre 30 anni. Perché intorno a questi, i ragazzi, generazione dopo generazione, si organizzano e ancora oggi, disperatamente, cercano un rito, in un tempo arido di riti, che pur servono a crescere, ovunque nel mondo. Col tempo, però, le cose sono degenerate e spesso i fuochi sono divenuti occasione per imporre un momento di rabbiosa alterità, suscitare gesti violenti; intorno a roghi riempiti di plastiche e immondizia, accesi tra i palazzi, senza alcun rispetto per chi ci vive, molti non vanno più, tenendo lontani i figli. Ma se in ogni quartiere povero di una grande area metropolitana resiste un rito, questo va guardato con cura. Così, anche venerdì sono stato nel mio quartiere, a guardare i figli dei miei alunni che, vestiti di nero, coi visi impiastrati di fango, danzavano e gridavano slogan ritmati, a torso nudo, abbarbicati sul muro di cinta di uno spazio vago, mai ricostruito.
I ragazzi sono diversi dai loro genitori che avevo accompagnato ai fuochi alla fine del secolo scorso.

Non ci si ferma più dopo il fuoco tra vecchi, giovani, bambini. Non si mangiano salsicce o sanguinaccio anticipando il carnevale. Non si resta lì a parlare. Anche rispetto al bel film “il segreto” di Cyop&Kaf che raccontava, nello stesso spazio, la storia dei ragazzi che approntavano il “cippo” pochi anni fa, la scena si è fatta più povera di parole e gesti, sincopata, rabbiosa, rapida e quasi incattivita

. Ma venerdì nel mio quartiere qualche genitore ha parlato con i poliziotti e una signora ha offerto un caffè ai pompieri. Piccoli gesti di prossimità. Così, nei Quartieri Spagnoli non è stata impedita la raccolta di alberi di Natale usati e legna, i carabinieri hanno sorvegliato senza intervenire e i pompieri erano lì vigili senza spegnere. Spento piano il fuoco, ognuno è andato a casa. Bene – mi sono detto – resiste qualcosa, ai ragazzini è stato lasciato uno spazio di espressione, senza danno. Purtroppo non è andata così nel Borgo di Sant’Antonio questa volta. Il Borgo è un luogo difficile. Ha un’elevata densità abitativa (10.364 ab./kmq) e un’elevatissima concentrazione dei diversi indicatori di esclusione sociale e povertà educativa che ne fanno un ghetto segregante: tasso oltre il 50% di famiglie e minori poveri, degrado abitativo diffuso, crescente immigrazione con forti tratti di marginalità, poco lavoro legale e, viceversa, forte peso del lavoro nero, alti tassi di dispersione scolastica e di analfabetismo funzionale degli adulti, forte presenza di genitori giovani con bassa scolarità, presenza di criminalità organizzata e non, diffusione di spaccio e droghe, di prostituzione anche minorile, alto numero di famiglie con membri detenuti, diffusione di malattie direttamente correlate alla povertà. Ha un’offerta di servizi limitata alle scuole di base.

Mancano nidi e interventi di sostegno alla genitorialità, tempo pieno nelle scuole, presidi di prevenzione socio-sanitaria. Al tempo stesso è un territorio con molti giovani che esprimono una potenzialità di sviluppo personale e cooperativo che non trova, tuttavia, sponde istituzionali e investimenti adeguati, con un grande mercato giornaliero (il più importante della Napoli storica) che racchiude un sistema di incontri, scambi, socialità con molte potenzialità, un alto tasso di famiglie migranti con una stretta convivenza tra persone italiane e non che non ha conosciuto conflitti anche se ve ne sono i crescenti rischi.
È probabile che in questo quartiere siano mancati proprio i gesti di prossimità e i mediatori, gente capace di tenere gli esili fili, così preziosi, tra legge e persone, tra voglia di avventura dei ragazzi e indispensabile presidio dei limiti.

Sì, mancano troppo spesso i mediatori e i portatori di proposta, di riflessione comune, di calma ponderata, di ri-partenza. Eppure servono come l’acqua e come il pane nei quartieri dove da decenni cresce la “disperanza” – è la parola che mi viene per dire del miscuglio profondo tra povertà materiale, orizzonti che si chiudono davanti, mancata comunità positiva intorno e, poi, risentimento per l’assenza di lavoro, welfare, proposta credibile di riscatto.

Certo, vi sono quartieri dove, con un grande lavoro, si ricostruiscono le condizioni per contrastare questa disperanza. Ma non sempre, non ovunque. È per questo che ci apprestiamo, in tanti, a intervenire nel Borgo, con un progetto di quattro anni almeno dedicato proprio ai bambini e ai loro genitori e alla ricostruzione di comunità.
La città è profondamente divisa tra chi è impegnato e chi protegge il suo. Non è ancora rinato un tempo, diverso da quello passato, dove, però, si possa accendere un nuovo fuoco comunitario e condiviso intorno al quale parlare in pace di sé, dei figli, del futuro comune, tra persone diverse. Ma dobbiamo lavorare a questo. E in molti inizieremo proprio dal Borgo di Sant’Antonio, con un progetto che si chiama “Si può”.

* Presto al Borgo partirà un lavoro che durerà quattro anni e sarà dedicato ai bambini e ai loro genitori

Fonti: